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1
“Fu in un tardo pomeriggio di primavera che successe per la prima volta, lasciandoci tutti sconcertati e, in certa misura, anche meravigliati. Frida, la nostra cagnolina di due anni, stava allegramente correndo per il giardino, cercando di raggiungere le tortore che volavano sugli alberi, quando a un certo punto – forse per l’esagerato scuotere della coda in senso orario – il suo corpo spiccò improvvisamente il volo, lasciandoci tutti a bocca aperta.
La guardammo, impotenti, prendere quota fra gli alberi, con lentezza ma grande decisione, allontanandosi sempre più nell’aere tiepidino. Mia madre si sgolò a più non posso per cercare di convincere la bastardina a scendere a terra, mio padre provò a chiamarla sventolando un osso in sua direzione; io, francamente, me ne stetti zitta e ferma, scioccata e senza nessuna idea sul da farsi.
Per un po’, la vedemmo compiere ampi giri sopra il nostro prato, scrutando l’orizzonte e annusando il mondo da lassù; poi, gradualmente – come un sogno che svanisce – la cagnetta scomparì in alto, lasciandoci tutti pieni di tristezza. Non riuscivamo a raccapezzarci, che avesse deciso di abbandonarci e di andarsene per i fatti suoi. La cena fu penosa; la notte sembrò non passare mai, in assenza di Frida.
Ogni tanto, nel buio di quella nottata, uscii in giardino nella speranza di vederla tornata a casa, ma la mia speranza non fu esaudita.
2
I giorni seguenti cercai di capire per quale motivo avesse deciso di volare via. I ricordi di quando aveva iniziato a far parte della nostra famiglia si susseguivano ossessivamente: da quando me l’avevano portata in macchina quel giorno di fine agosto, alla prima notte in cui aveva dormito con me, nella sua cuccia di fianco al letto; da quando l’avevo portata al parco per la prima volta a quella volta in cui aveva fatto il bagno in mare, scuotendo vigorosamente la pelliccia dopo essere uscita dall’acqua.
Con il magone, ricordai anche di quelle volte in cui l’avevo sgridata e l’avevo sculacciata sul sedere, quando era scappata dal recinto per rincorrere le galline dei vicini. Se fosse tornata, non mi sarei più azzardata a strigliarla, mai più, giuravo in cuor mio, nella speranza di vederle fare ritorno.
Nelle notti insonni popolate da rimpianti, avevo visioni di lei che mi rimproverava per la mia severità e mi rinfacciava di non aver potuto dormire sul letto insieme a me, di non aver potuto mangiare dolcetti, di non essere stata portata a spasso abbastanza a lungo. Questo mi affliggeva e mi pesava sul cuore come un macigno. E allora pregavo che lei decidesse di tornare e di perdonarmi, ché poi sarei stata una padrona migliore.
A furia di pregare e sperare e piangere, una mattina, mentre ero intenta a raccogliere pomodori nell’orto, ecco sbucare in lontananza, svolazzando nell’aria umida, un musetto impertinente e una coda che si muoveva a girandola. Era lei, Frida, che puntava in mia direzione.
Atterrò con maestria e con aria altezzosa, mentre io la fissavo sbalordita, incapace di muovermi. Lei rimase ferma per un po’, dopodiché si mise a grattarsi dietro un orecchio, fece pipì e venne a sedersi vicino a me, chiudendo gli occhi nel sole del mattino. Era più bella che mai.
“Oh, Frida, cara mia… Mi dispiace se ti ho delusa… – le dicevo io mentre la accarezzavo, con le lacrime agli occhi – Ma perché te ne sei andata? Ti ho trattata così male? Perché hai voluto abbandonarmi?”
“Perché non avevo più voglia di scatolette”, rispose lei, girandosi dall’altra parte a prendere il sole.”
©Anna Rambaldi, 17 ottobre 2016
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L’immagine di copertina è di SarahRichterArt @pixabay