Racconto fantastico e grottesco
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1 Atmosfera bollente
“La donna si trascinò a gran fatica su per i gradini dell’albergo. Il caldo afoso degli ultimi giorni, che faceva percepire agli stremati villeggianti una temperatura di oltre 40°, l’aveva ormai privata di tutte le forze. Non appena si muoveva – così come quando restava immobile – un sudore viscido e detestabile cominciava ad inondarle l’epidermide, facendola sentire spossata e appiccicosa.
A tutto ciò andava sommandosi il disagio delle zanzare, che, attirate dall’umidità della pelle, continuamente le si attaccavano addosso cercando di nutrirsi del suo sangue. La donna aveva preso a pigliarsi a sberle ora sulle gambe, ora sulle braccia, ora sulla nuca, cercando invano di schiacciarle mentre, con l’altra mano, si faceva aria da uno sconsolato ventaglio.
Seduta a un tavolino sotto il portico dell’hotel, chiese una coca cola con ghiaccio per tentare di rinfrescarsi. La sua irritazione cresceva ogni secondo di più, con le zanzare che si accanivano in maniera crescente, andando a posarsi di volta in volta nei punti in cui i colpi della mano non potevano raggiungerle. Pesanti gocce di sudore scendevano fastidiosamente dalle sue tempie e dalla schiena, andando a inzuppare i vestiti che ormai imploravano pietà.
Quella mattina, sotto l’ombrellone, le avevano rubato la borsetta con dentro portafoglio, cellulare e chiavi della macchina; sicché aveva dovuto chiamare il figlio dal telefono della reception e implorarlo di venire a strapparla a quell’incubo di caldo e zanzare e terribile fastidio. Il figliolo le aveva risposto che stasera non avrebbe potuto; che sarebbe venuto a prelevarla l’indomani: dimodoché alla sventurata ora restavano un’altra lunga serata e un’interminabile notte da trascorrere in quella valle di sudore e lacrime.
Schiacciò, solo momentaneamente vittoriosa, una zanzara che le era atterrata sull’orecchio, gioendo per una frazione di secondo alla vista del sangue sul palmo della mano, ma dolendosi subito dopo dell’effetto della poderosa sberla auto-inflittasi contro l’apparato auricolare. Il bicchiere di coca, ricoperto di condensa, le sfuggì di mano e subito il vestito si macchiò di un nero ineluttabile. Che vacanza di merda.
2 Tutti a tavola!
Qualche istante dopo, una delle cameriere dell’albergo annunciò l’apertura della sala ristorante. Uno ad uno, gli attempati clienti si issarono sulle vetuste tibie e intrapresero la faticosa avanzata in direzione del pasto serale. Una processione di corpi rugosi e sudaticci attraversò il patio per andare ad infilarsi, con esasperante lentezza, nel salone dell’hotel, dove ad attenderli c’erano cameriere altrettanto accaldate. Una volta approdati ognuno al proprio tavolo, agli ospiti venne servito l’antipasto: un’enorme palla rovente – forse un arancino di riso – sormontata da una colata di salsa incandescente che rilasciava minacciosamente nell’aere il proprio letale vapore. Ancora non avevano servito l’acqua fresca.
La signora Rossati, quella con la quale avevamo iniziato questa storia, affondò la forchetta nella sfera arroventata e la trafisse con la lama del coltello. Ne uscì un fiotto di vapore che quasi le ustionò il viso. Sgorgarono lacrime. La donna tagliò un piccolo boccone di arancino e se lo lasciò cadere sulla lingua. Subito, un sibilo simile a quello di marchiature e fuoco, o di padelle roventi gettate sotto acqua fredda, uscì dal cavo orale della sventurata, che – non potendo rinfrescarsi con l’acqua minerale (non ancora pervenuta a tavola) – si alzò di scatto e cominciò a saltellare per la sala da pranzo, la bocca spalancata in cerca di sollievo.
Uno ad uno, anche gli altri ospiti dell’hotel guizzarono in piedi; alcuni, più scaltri, presero la via della toilette per poter raffreddare la lingua sotto al rubinetto. L’incubo di fuoco durò alcuni minuti; istanti interminabili per gli sciagurati clienti, che rischiavano bruciature irrimediabili dalle labbra allo stomaco. Tuttavia, poco dopo la quiete fu in parte ripristinata, e le cameriere servirono l’acqua, compiaciute.
3 La tortura continua
In seguito, fu portato a tavola il primo. Passatelli in brodo. Dai carrelli sui quali erano trasportate le cocotte – movimentate con la cautela degna di un ordigno nucleare – si sollevavano terribili vapori, e letali. Ad ogni tavolo, le cameriere si fermavano e depositavano con la massima attenzione le ciotole incandescenti, prendendole dal carrello armate di guanto isolante. I poveri malcapitati versavano lacrime di disperazione. Ad ogni cucchiaiata, un guaito di dolore. Ad ogni deglutizione, il rischio di un’ustione. La diabolica brodaglia inceneriva palati, inesorabile.
“Forza, signora Rossati, beva il suo brodo, se no si fredda!”, esortò una delle cameriere battendo la mano sulla schiena dell’ospite, la quale, colta di sorpresa, dovette trangugiare il mefistofelico intruglio tutto d’un sorso, senza potervi soffiare sopra. Un rumore di esofago strinato, poi un lungo e tristo silenzio, qua e là intervallato da gemiti di dolore provenienti da vari tavoli.
Terminato il brodo, dalla cucina cominciarono a servire il secondo: filetto di merluzzo al cartoccio. Sui carrelli comparvero piatti di porcellana su cui erano adagiati, minacciosi, voluminosi involucri di carta stagnola, ripiegati su se stessi in modo da mantenere internamente tutto l’ancestrale calore per mezzo del quale erano stati forgiati, come utensili di metallo creati da un sadico cuoco – Vulcano.
La loro materia prima era, probabilmente, la medesima lava di cui ribolle il nucleo del pianeta; loro strumento di cottura non era stato un forno – (oh, no) – era stato il Vulcano stesso, che aveva sputato fuori dal proprio cratere quei fagotti incandescenti partorendoli come figli propri. Gli ignari ospiti, tuttavia, non sospettavano tutto ciò, anche se i presagi non erano mancati; i cartocci lavici rappresentarono l’acme di quel furioso pasto vulcanico.
4 La fine delle sofferenze
La Signora Rossati – che ora lo era di nome e di fatto – esalò l’ultimo respiro alla prima forchettata di filetto, evaporando nell’aere le proprie membra surriscaldate. Un fumo rosa brillante si sollevò dalla sua sedia, tergiversò un poco svolazzando in sala da pranzo e, infine, andò a spataccarsi sul soffitto, lasciandovi impresso un alone unticcio.
“Ottima tempistica!”, annotò trionfante una delle cameriere, stoppando il cronometro del suo orologio da polso.
“Diciassette minuti, quattro in meno del record dell’anno scorso!”, aggiunse compiaciuta una delle colleghe.
“Già, anche quest’anno stiamo andando forte!”, confermò la prima, fregandosi le mani in contemplazione della sala.
Lì, proprio come bolle d’acqua che a 100 gradi si rimescolassero in un calderone, i clienti dell’hotel andavano dimenandosi sulle proprie sedie, in procinto di scoppiare uno dopo l’altro come la povera Rossati. Ed infatti, ecco esplodere il primo, di fianco alla colonna centrale della sala.
“DICIANNOVE MINUTI!”, esclamò la capo sala saltellando entusiasta da un piede all’altro.
Giubilo e applausi dal resto del personale. L’operazione omicida proseguiva.
“Venti minuti! Ventuno minuti! VENTITRÉ MINUTI!!!”, si continuò a registrare, ad ogni nuova deflagrazione.
5 Il signor Sperindio
Ormai, il salone era saturo dei vapori degli ex-clienti, che uno ad uno erano esplosi per l’incandescenza dei cibi serviti. Ne era rimasto soltanto uno: il signor Sperindio, ospite dell’albergo per il decimo anno di fila. L’aveva presa come una battaglia personale, vai a capire perché. La brigata di sala lo osservava in attesa, stringendosi attorno alla capo cameriera per poter controllare anch’esse il cronometro.
“Dai che manca poco! Questa volta è quella buona!”, fremevano.
Ma lo Sperindio resisteva, eccome se resisteva. Una forchettata dopo l’altra, l’irriducibile cliente aggrediva il vulcanico cartoccio come fosse l’impresa di una vita e, forse, lo era davvero. Bollenti gocce di sudore gl’inondavano il viso e il corpo intero. I piedi si muovevano, tarantolati, sotto al tavolo, forse nell’inconsapevole tentativo di disperdere calore dalle estremità. Gli sforzi, però, alla lunga risultarono vani, e anche il coriaceo Sperindio fu sopraffatto. Esplose a due bocconi dalla fine del filetto.
“Ventisette minuti. FIAMMETTA, VENTISETTE MINUTI!!!”, urlarono le diaboliche cameriere rivolte verso la cucina, dove la cuoca poté finalmente sedersi e sospendere le operazioni belliche.
“E tutti prima del dolce, tutti quanti! Ottimo lavoro, ragazze. Quest’anno ci siamo superate!”
Le sataniche dipendenti chiusero l’albergo fra reciproche lusinghe e smisurata baldoria, e si recarono baldanzose a riscuotere il proprio compenso all’INPS.”
Racconto surreale di ©Anna Rambaldi, 8 settembre 2019
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